LO STRANO CASO DEL “TREN MAYA”
In Messico è in costruzione una linea ferroviaria veloce (160 km orari) di ben 1.525 km. Ma non servirà la capitale, Città del Messico, né le altre due maggiori città, Guadalajara e Monterrey, situate nel nord del paese.
Si svilupperà, invece, nell’estremo lembo sud occidentale, tra Palenque, nello stato del Chiapas, e la nota località balneare di Cancun, passando per Merida, capoluogo dello Yucatan, disegnando un cerchio attorno alle coste della penisola e toccando il sito archeologico di Chichén Itzà, con la famosa piramide Maya.
Progetto un poco stravagante, ma non insensato, visto che è chiaramente mirato alla nutrita clientela turistica, attratta dalle vestigia precolombiane e dalle spiagge caraibiche (oltre a Cancun, servirà anche Playa del Carmen). Si possono nutrire perplessità sulla scelta di un tracciato lontano dalle zone più densamente urbanizzate, ma indubbiamente il volume dei transiti turistici – in continua crescita prima della pandemia e soddisfatto per ora solo dai bus e dagli aerei – può giustificare l’ingente spesa stimata in 25 miliardi di dollari.
Il presidente messicano Lopez Obrador ha sostenuto a spada tratta il progetto, al punto di cancellare un importante investimento sull’aeroporto della capitale, proposto dal suo predecessore, ed altri programmi tra cui il Gran Premio del Messico. La nuova linea utilizzerebbe in parte i tracciati di preesistenti ferrovie per minimizzarne l’impatto sul territorio; i treni sarebbero gestiti dalle forze armate ed i proventi derivanti dal futuro esercizio sarebbero destinati a finanziare le pensioni.
Fin qui, dunque, si tratterebbe di una grande opera in stile keynesiano e con una certa attenzione al sociale. Per esempio, i messicani godranno di tariffe molto agevolate rispetto agli stranieri. Ciò nonostante gli scarsi echi raccolti al di qua dell’oceano sono tutti estremamente negativi. E, se andate su internet, alla voce “Tren Maya”, vi imbatterete quasi sempre in feroci critiche alla presunta minaccia ambientale che graverebbe sulle foreste dello Yucatan o sul rischio di snaturamento delle culture autoctone. Persino gli epigoni dell’ormai dimenticato “subcomandante Marcos” si sono risvegliati, minacciando barricate. Dunque, vade retro “Tren Maya”.
Ma, allora, era meglio investire sull’aeroporto della capitale e sull’autodromo? Si può capire come l’opposizione al presidente Obrador – che certamente non può vantare un pedigree democratico a tutto tondo – cerchi qualsiasi argomento per impallinare il governo centrale. Però il problema del traffico turistico esiste. Un treno è più devastante per l’ambiente di decine di voli supplementari o dell’ampliamento delle autostrade? Strana sinistra quella che, dopo aver auspicato per decenni un riequilibrio modale tra gomma e rotaia, strepita ad alta voce proprio quando ci si decide ad investire sul ferro. A casa nostra come in Messico, d’altronde.
Il fatto è che il “Tren Maya” rischia di essere percepito come un corpo estraneo calato nella realtà locale, un po’ come la famosa meteorite che molti millenni addietro, proprio da quelle parti, determinò l’estinzione dei dinosauri. Intendiamoci, non è che i messicani non conoscano i treni,
La nazione centroamericana dispone di una rete abbastanza articolata (circa 27 mila km) che si raccorda con quella statunitense oltre il Rio Grande e si spinge a sud fino ai confini del Guatemala.
Ma il traffico passeggeri è praticamente scomparso negli anni Novanta, quando al governo è asceso l’ultraliberista Salinas de Gortari che aveva privatizzato anche le ferrovie. Come nell’Argentina di Carlos Menem, le società private da allora si sono dedicate solo al trasporto delle merci. E gli unici viaggiatori oggi sono i migranti disperati che salgono di frodo sui lenti treni merci nella speranza di raggiungere il confine statunitense, dove li aspettano muri e pattuglie armate di “gringos”.
La storia delle ferrovie messicane non si differenzia perciò da quella di quasi tutte le nazioni latino americane: tracciati tortuosi realizzati al risparmio con l’occhio rivolto allo sfruttamento delle materie prime da convogliare verso i porti, seguita da una lenta decadenza per mancanza di investimenti e modernizzazioni. Fanno eccezione solo i servizi pendolari attorno alle grandi città. Per la verità in Messico nemmeno quelli, visto che stenta a decollare persino il collegamento tra la capitale e la vicina città di Toluca, a 3.000 metri di quota.
Prendendo spunto da quanto avviene in Europa ed in Asia, Brasile ed Argentina, all’inizio del Millennio, sembravano scommettere sull’Alta Velocità, tra San Paolo e Rio de Janeiro, oppure tra Buenos Aires e Cordoba. Ma poi questi ambiziosi progetti si sono arenati, tra la corruzione dilagante che portò al declino di Lula e Dilma Rousseff a Brasilia o la demagogia populista (“Trenes para todos”) che aveva contrassegnato gli ultimi anni di Cristina Kirchner a Buenos Aires.
Anche in Messico qualcuno ipotizzava di costruire linee veloci dalla capitale verso Guadalajara e Monterrey, ma poi non se ne è fatto niente. Adesso l’unica speranza di realizzare una moderna ferrovia a lunga distanza in America Latina è riposta proprio sul “Tren Maya”. Se avesse successo, forse, potrebbe attirare capitali anche per altre direttrici che collegano tra loro i centri maggiori.
Esistono modelli differenti da adottare per riscoprire il treno a sud del Rio Grande? Difficile intravederli. Quando visitai il Messico nel lontanissimo marzo 1979 dalla stazione di Buenavista, nella capitale, partivano ancora convogli a lungo raggio. Portavano nomi fascinosi tipo “Aquila Atzeca”, ma in realtà erano lente tradotte, frequentate più che altro dai poveri “peones”. I turisti, già allora, si spostavano solo in aereo o, sulle distanze più brevi, in bus gran comfort.
Giunto a Merida, capitale dello Yucatan, un po’ frustrato, decisi di rinunciare all’escursione a Cancun e dedicai un’intera giornata ai trenini (scartamento 910 mm) della Ferrocarriles del Sureste che si spingevano fino a Tizimin (171 km in cinque ore!). Fu un’esperienza scomoda (levataccia antelucana), ma a suo modo interessante. Non tanto per il paesaggio, sostanzialmente piatto tra le piantagioni di sisal (di ecosistemi pregiati non ne ricordo proprio), quanto per la frequentazione. A bordo erano tutti indios, discendenti dai mitici Maya, impiegati evidentemente nelle piantagioni, con tanto di machete alla cintola, che parlavano tra loro in un incomprensibile dialetto locale.
Benché mi fossi opportunamente mimetizzato con jeans e cappellaccio texano calato sugli occhi, uno dei miei compagni di viaggio, incuriosito, mi rivolse la parola in spagnolo, chiedendomi se per caso fossi un “norteno”, ossia un messicano del nord. Oltre, probabilmente, non si erano mai visti altri tipi di viaggiatori. Era forse questo il Messico da rimpiangere a giudizio degli pseudo ambientalisti e dei terzomondisti da salotto che adesso contrastano con veemenza il progetto del “Tren Maya”?
Può darsi: il treno è un mezzo di trasporto molto amato per il suo esotismo, soprattutto da chi non lo utilizza. Poi, quando si tratta di rilanciarlo in chiave moderna, con una velocità commerciale adeguata ai tempi che stiamo vivendo, in modo da intercettare la potenziale domanda (di pendolari, uomini d’affari o anche turisti) dei nostri contemporanei, allora si moltiplicano le critiche sui costi di realizzazione, sull’impatto ambientale, sullo snaturamento delle culture locali. Portate avanti da quegli “antagonisti”, che sembrano soprattutto voler conservare lo status quo. Ossia l’egemonia delle automobili e degli aerei (che, notoriamente, rispettano l’ambiente e i costumi autoctoni!).
Sono movimenti che attecchiscono tanto più facilmente nel continente americano, non più avvezzo da generazioni all’uso del treno, al di fuori di alcune grandi città e dei loro dintorni. Ma che trovano seguito anche in certi contesti mediterranei che, per certi aspetti, ricordano l’America Latina.
Ne sappiamo qualcosa, vero?
Massimo Ferrari