ANCORA TROPPE VAGHEZZE SUL “RECOVERY PLAN” FERROVIARIO
Ecco dunque l’elenco delle opere previste dal Recovery Plan che il Governo Draghi si accinge a presentare alla Comunità Europea con tanto di commissari i quali, si spera, dovrebbero garantirne la realizzazione in tempi ragionevoli.
Sempre che la macchina burocratica e le procedure assurde non finiscano ancora una volta per prevalere. Limitiamoci alle opere di natura ferroviaria, giustamente privilegiate rispetto a quelle stradali (il “riequilibrio modale” finalmente viene preso sul serio).
Tra queste ci sono annose incompiute come la chiusura del raddoppio sull’Adriatica, ritardata colpevolmente dalla Regione Molise, il potenziamento della Orte – Falconara, il completamento del raddoppio (sciagurato, perché previsto troppo all’interno e lontano dai centri abitati, grazie alla miopia dei sindaci) sul Ponente Ligure, il raddoppio della Cremona – Mantova, finora invocato inutilmente dai pendolari lombardi.
Alcune opere procedono a singhiozzo da anni, senza che sia chiaro quale obiettivo si vuole raggiungere: la Pontremolese raddoppiata diverrà solo un corridoio merci verso il porto di La Spezia, oppure c’è la speranza che venga utilizzata anche per relazioni passeggeri decenti tra Milano, Bergamo, Brescia e la Versilia?
Ci sono anche interventi modesti, come il ripristino della Palermo – Trapani via Milo, interrotta otto anni fa da una frana che, in un paese normale, avrebbe potuto essere risolta in poche settimane con i fondi ordinari. Ed altre opere, senz’altro meritevoli di attenzione, come la velocizzazione della Venezia – Trieste e della Palermo – Catania, che, però, restano nel vago: tracciato completamente nuovo o miglioria sostanziale dell’esistente?
Ce ne sono alcune su cui sono maturate strategie abbastanza precise, come l’AV Milano – Venezia, tra Brescia e Padova (con stazione confermata nel centro di Vicenza), e il potenziamento della linea da Verona al traforo del Brennero in corso di realizzazione. O la prosecuzione dell’AV tra Napoli e Bari, purtroppo senza prevedere un radicale by pass per evitare l’ansa di Foggia, risparmiando almeno venti minuti ai treni più veloci ma servendo anche Cerignola e Canosa.
E poi c’è il piatto forte della Salerno – Reggio Calabria , per la quale sono state presentate diverse varianti, alcune delle quali decisamente faraoniche, quali l’integrale quadruplicamento per far circolare le Frecce a 350 km orari in mezzo alle montagne della Calabria, in un susseguirsi ininterrotto di ponti e gallerie, lontano dai centri abitati e con impatto ambientale tutt’altro che trascurabile. Ma ovviamente molto gradite a vasti settori dell’opinione pubblica meridionale, ansiosa di una clamorosa rivalsa sul Nord colonizzatore e di una formidabile occasione per far proliferare cantieri (si spera con appalti non truccati, ma è lecito dubitarne).
L’ipotesi ragionevole sembrerebbe essere quella di intervenire per velocizzare la linea esistente
(raddoppiata negli anni Sessanta con rettifiche di tracciato e priva di passaggi a livello), senza escludere la possibilità di notevoli varianti laddove davvero necessarie. Per esempio, tra Battipaglia e Sapri, passando in galleria sotto Vallo di Lucania o magari nel Vallo di Diano, senza però dismettere l’attuale tratta costiera un po’ tortuosa e acclive, ma utile alla comunità cilentana.
Non dovrebbe essere impossibile ottenere un tracciato percorribile a 200 km/h, evitando inutili quadruplicamenti (non giustificati dai volumi di traffico presenti e futuri), riducendo però i tempi di percorrenza tra Roma e Reggio a quattro ore (tre ore da Napoli). Comunque un obiettivo di tutto rispetto, anche in prospettiva di un collegamento fisso attraverso lo Stretto di Messina.
Ma qui rischia di riproporsi una battaglia ideologica insensata, come sulla Tav Torino – Lione, non inclusa nel Recovery Plan, perché già finanziata da altri canali. Movimento 5 Stelle ed ambientalisti sono tendenzialmente favorevoli agli investimenti ferroviari nel Mezzogiorno perché la scelta appare “politicamente corretta”. Continuano, invece, ad avversare ogni ipotesi di collegamento fisso sullo Stretto, senza rendersi conto che la velocizzazione della Salerno – Reggio, specie nella sue versioni più ambiziose, e gli interventi già in corso in Sicilia, tra Palermo, Messina e Catania si giustificano proprio in funzione del transito diretto tra l’isola e il continente.
Inutile aggiungere che gli argomenti opposti al collegamento fisso fanno acqua da tutte le parti. Tipo, mancano le infrastrutture moderne in Calabria e in Sicilia: già, ma adesso si stanno facendo. C’è un altissimo rischio sismico: ma, a parte il fatto che in aree ancor più sismiche come il Giappone i rischi sono stati affrontati con successo, che differenza ci sarebbe se, in caso di violenti terremoti a crollare fossero ponti o gallerie sulla Sila o sotto i Peloritani.
E ancora, quelle terre sono ostaggio della mafia e della ndrangheta: e allora tanto vale abbandonarle al loro (triste) destino? Per attraversare lo Stretto bastano i ferries: cioè quella modalità di trasporto che si sta estinguendo in tutto il Mondo e che tra Villa San Giovanni e Messina impone ai treni una perdita di tempo stimabile in due ore, tale da dissuadere chi volesse ancora prendere in futuro il treno da Napoli a Catania o da Roma a Palermo?
Ma allora non si potrebbe ricercare una soluzione pragmatica, ovvero limitarsi agli interventi essenziali in Calabria, riducendo costi, sfregi al territorio ed evitando l’abbandono della costa, risparmiando così risorse da destinare successivamente ed un collegamento sostenibile attraverso lo Stretto, senza escludere a priori l’ipotesi del traforo sottomarino? Per carità, troppo semplice.
O magari investendo meglio sulla trasversale Battipaglia – Taranto e sul raccordo verso Matera (opere previste dal Recovery Plan), ma evitando sprechi come negli anni Ottanta, quando si chiuse la linea per anni onde realizzare l’elettrificazione, senza poi conseguire apprezzabili riduzioni nei tempi di percorrenza, ma approfittandone per chiudere la diramazione verso Lagonegro. E progettando la stazione di Matera in mezzo al nulla, senza prevederne l’interscambio con le Appulo Lucane, la cui stazione, ridisegnata recentemente da Stefano Boeri, sorge in pieno centro e risulta comoda per chi è diretto a Bari.
Questo per non parlare della nuova Roma – Pescara, di cui è noto solo il titolo, senza precisare se si intenda passare per Avezzano e Sulmona (come adesso), piuttosto che per Passo Corese, Rieti e L’Aquila o magari addirittura spingendosi fino a Teramo, come reclamano alcune organizzazioni sindacali abruzzesi. E anche lì senza quantificare i costi, che si intuiscono ingenti in presenza di flussi di traffico contenuti, pur scontando la necessità di un collegamento moderno tra la capitale e la costa adriatica, da decenni delegato esclusivamente alla strada.
Infine c’è il capitolo destinato alle infrastrutture ferroviarie urbane, quali il prolungamento della metro “C” a Roma e la chiusura dell’anello ferroviario attorno alla capitale, preconizzato ormai da decenni, ma sempre naufragato di fronte all’opposizione di alcuni sfasciacarrozze che occupano il tracciato (e soprattutto alla irresolutezza della classe politica capitolina). Decisamente molto poco per alleviare la congestione delle nostre città a cominciare dall’Urbe. Anche se è pur vero che molti progetti locali sono già previsti e finanziati sotto altri capitoli di spesa, pur in assenza di Commissari capaci di accelerarne i tempi, che in certi casi sono già diventati biblici.
“Tempi interessanti”, avrebbe forse sentenziato lo storico Eric Hobsbawm, Perché indubbiamente di carne al fuoco ce n’è parecchia. Ma è anche vero che “grande è la confusione sotto il cielo”, giusto per citare Mao. E non è detto che stavolta la situazione sia proprio eccellente.
Massimo Ferrari