L’INDIA ALLA VIGILIA DI UN BOOM FERROVIARIO?
In Asia, oltre alla Cina, c’è un altro gigante che potrebbe diventare protagonista nel trasporto su rotaia. Naturalmente parliamo dell’India.
Ossia della seconda nazione per numero di abitanti (1 miliardo e 380 milioni), che a breve dovrebbe collocarsi al primo posto, scavalcando il dragone su cui si riverbera la scelta della politica del figlio unico, imposta per oltre 30 anni, la quale, se da un lato ha costituito la premessa per il formidabile superamento della povertà, dall’altro ha contribuito al preoccupante invecchiamento della popolazione. Freno sconosciuto a sud dell’Himalaya, in un paese ancora prevalentemente povero – molto meno di un tempo, però – ma assai dinamico.
L’India, per di più, aveva ereditato dai britannici una rete ferroviaria capillarmente diffusa, probabilmente il miglior lascito coloniale di tutti i tempi, purtroppo non replicato altrove, nonostante le velleità inglesi di poter viaggiare in treno dal Cairo al Capo o i sogni francesi della Transahariana. E quasi certamente proprio il sistema dei collegamenti ferroviari, unitamente alla diffusione della lingua inglese, ha scongiurato il rischio della disintegrazione di uno stato federale costituito da miriadi di etnie, religioni, usanze diverse.
O, perlomeno, ne ha limitato i danni, visto che il Raj – ossia l’impero britannico del subcontinente – era qualcosa di ben più vasto dell’attuale India, estendendosi dal Pakistan, alla Birmania a Ceylon, l’attuale Sri Lanka. Ebbene, già nel 1931, si contavano nel Raj 65.500 km di binari, più o meno quanti funzionano attualmente nella sola India, anche se, sommando l’estensione delle reti di Pakistan, Bangladesh, Sri Lanka, Myammar (nome attuale della Birmania), si arriva a 85.500 km, 20 mila in più della mezzanotte del 15 agosto 1947, quando scoccò l’ora dell’indipendenza (“Freedom at midnight”), voluta fermamente da Gandh, Nehru e dal musulmano Jinnah.
Nei tre quarti di secolo trascorsi da allora, non solo è cresciuta la lunghezza della rete, ma lentamente è migliorata la qualità del servizio. E’ scomparsa la trazione a vapore (oggi un terzo della rete indiana è elettrificata e si conta di estendere ovunque la catenaria!), le linee a scartamento metrico, che un tempo rappresentavano una fetta consistente del sistema, sono state in gran parte riconvertite allo scartamento largo (1.676 mm); la divisione in tre classi è rimasta, ma il comfort delle vetture è migliorato e si è diffusa l’informatica nella prenotazione dei posti. I ritardi sono sempre frequenti, ma un viaggio in treno non somiglia più a quella esperienza esotica dei miei anni giovanili, quando i finestrini – protetti da inferriate per impedire l’accesso dei clandestini – dovevano restare chiusi per evitare che le sabbie del Rajasthan ricoprissero i divani ed il pavimento.
A differenza della Cina, raggiungibile in treno con la Transiberiana o lungo la “Via della Seta”, il sistema del subcontinente indiano resta sostanzialmente isolato, nonostante da qualche anno esista la, molto teorica, possibilità di raggiungere Delhi dall’Europa, attraverso la Turchia e l’Iran, salvo sfidare gli altissimi rischi e le scarsissime frequenze (due corse al mese) di un viaggio attraverso il Beluchistan. Ed anche i collegamenti via terra con i vicini pachistani, bengalesi e cingalesi sono ridotti al minimo, retaggio di tensioni e diffidenze mai del tutto sopite. Però, all’interno dell’India, si può viaggiare in treno dal Kashmir innevato fino a Capo Comorin, punta tropicale del Deccan e da Amritsar, la città santa dei Sikh, fino al lontano Assam, incuneato in prossimità del confine birmano. Spesso con convogli diretti dai nomi fascinosi, come il lussuoso “Palace on wheels”.
Ma inevitabilmente lenti, visto che la velocità massima raramente raggiunge i 160 km orari e le medie commerciali sono molto più basse. Ciononostante il numero di passeggeri è imponente: 23 milioni annui sui 12.600 convogli in circolazione ogni giorno.
Anche per questo il trauma prodotto dal Covid è stato violento. Al fine di contenere la diffusione della pandemia il governo ha fermato per settimane la circolazione ferroviaria, adibendo centinaia di vetture ad ospedali itineranti. Ciò ha indotto milioni di persone a spostarsi a piedi o con mezzi di fortuna tra una città e l’altra, ma i risultati hanno confortato queste misure draconiane. Gli effetti del virus in termini di vittime sono stati relativamente contenuti: 150 mila a gennaio 2021, almeno secondo le stime ufficiali, comunque molto meno degli Usa, che pure hanno solo un quarto della popolazione. Complice certamente l’età media molto più bassa e, secondo alcuni scienziati, le condizioni igieniche precarie che avrebbero immunizzato molti individui dalle malattie più gravi.
Adesso che il traffico – alimentato da treni speciali su prenotazione – sta lentamente riprendendo si ripropone il problema di come modernizzare l’Indian Railways, un colosso statale con un milione e 300 mila dipendenti, che deve necessariamente aprirsi al mercato, se non vuole essere sopraffatto dal miglioramento della rete stradale e dall’intensificazione delle rotte aeree, ai cui servizi può accedere un numero crescente di potenziali clienti entrato a far parte della classe media.
Certo le distanze sono notevoli, ma la densità demografica, così come avvenuto con successo in Cina, consiglia di investire sulle ferrovie per scongiurare la paralisi dell’economia indiana. In particolare il cosiddetto “quadrilatero d’oro”, compreso tra Delhi, Kolkata (Calcutta), Chennai (Madras) e Mumbai (Bombay) – all’interno del quale si trovano altre importanti città in forte sviluppo, come Bangalore, centro di eccellenza informatico verso il quale si sono delocalizzate molte imprese europee ed americane – è candidato ad ospitare corridoi ad alta velocità.
Per ora solo una nuova linea tra Mumbai ed Ahmedabad (534 km) è in fase di costruzione e predisposta per i 320 km orari, ma altri 3.114 km di alta velocità sono già stati approvati ed ulteriori 2.545 sono in fase di studio. Il governo Modi, in attesa di sviluppare la capacità di investimento nazionale – obiettivo del tutto alla portata, visto l’alto numero di ingegneri specializzati, sfornati dalle locali università – si affida alla tecnologia giapponese, per non dover dipendere dall’ingombrante vicino cinese, la cui rete pure si sta affacciando a sud dell’Himalaya, con linee in costruzione dal Tibet al Nepal e dallo Xinjiang al Pakistan. Comunque vada, l’India si candida a divenire nel prossimo decennio un nuovo colosso dell’alta velocità a livello mondiale.
Ancor più promettenti sono le prospettive per quanto riguarda le linee urbane e suburbane, un settore, invece, piuttosto trascurato dai colonizzatori britannici, che lasciarono in eredità solo poche reti tranviarie, spazzate via negli anni Sessanta dalla crescente congestione viaria, con la sola eccezione di Calcutta, dove i tram sono rimasti e stanno diventando un soggetto iconico. Ma, benché ancora prevalentemente rurale (il 67 per cento della popolazione vive in campagna), l’India può adesso contare su 46 città con oltre un milione di abitanti, che diventano 95 sopra i 500 mila. Un serbatoio enorme per la mobilità di breve raggio che deve essere necessariamente sostenibile, se non si vuole definitivamente soccombere all’inquinamento ed alla congestione.
Qui già si vedono risultati eloquenti. Si contano otto sistemi ferroviari suburbani per oltre 4 mila chilometri di sviluppo, mentre 13 città sono dotate di metrò (31 linee e 730 km totali), sistemi che in altre sette sono in fase di costruzione (per divenire operativi entro il 2024!), mentre in ulteriori dieci città sono in progetto. E si tratta di reti modernissime, pulite, talmente efficienti da essere talvolta preferite dalle equipe mediche per il trasporto di organi, visto che i pazienti in attesa di trapianto rischierebbero di soccombere se dovessero dipendere dalle caotiche condizione del traffico viario.
L’attivazione della prima linea di metrò in India risale al 1984, con il timido debutto a Calcutta. Poi sono trascorsi ben 20 anni prima che Delhi inaugurasse la sua prima tratta. Ma, adesso, nel giro di soli 16 anni, la capitale è già arrivata a dieci linee, per complessivi 384 km. Inclusi i collegamenti rapidi verso l’aeroporto internazionale, che sono stati attivati anche a Bangalore e Chennai.
Lo sviluppo della rete di Delhi è impressionante, distanziato solo dalle megalopoli cinesi, ma molto superiore ai ritmi cui siamo avvezzi in Europa o in America. Forse, come aveva intuito Federico Rampini nel suo saggio del 2006 “L’Impero di Cindia”, la sfida per la supremazia nel nostro secolo non sarà tra Usa e Cina, ma assomiglierà ad un derby asiatico. Fra Pechino e Delhi.
Massimo Ferrari